DELTA del PO
Trekking di 110 km. in 3 giorni e mezzo
esplorando in kayak da mare
IL GRANDE DELTA
Delta del Fiume Po
Mare Adriatico Settentrionale
Eko-foto e mappe © Testo di Lorenzo Molinari © Eko-prefazione e conclusione.
Eko-prefazione
Posso comprendere che Lorenzo, cresciuto canoisticamente su fiumi cristallini e ricchi di vitalità alpina, veda nel Grande Delta più la morte del fiume che la nascita di nuova vita.
- Testo di Lorenzo**
Il fiume trasuda
olio e catrame
le chiatte scivolano
con la marea che si volge…sospingono
tronchi che vanno alla deriva…Thomas Stearns Eliot, da “The waste land”
Non posso ingannarmi, convincendomi di aver attraversato luoghi che ricorderò per la loro bellezza. Al di là che possa non piacermi ciò che per altri è bello, credo di saper cogliere la bellezza ma nel morente per prima cosa si percepisce essenzialmente altro.
Quando il fiume cessa di essere, cessa di scorrere, quando la sua vitalità è ormai venuta meno, quando le sue acque hanno perso da tempo trasparenza e lucentezza, imputridite e inquinate da liquami e sostanze chimiche riversate senza posa da civiltà che prolificarono e prolificano per le centinaia di chilometri delle sue sponde e lungo quelle dei suoi affluenti, quando alle sue acque non resta che il saltuario ribollio di un lento fermentare, perché svuotate di ogni respiro, anche la vita che fino allora accoglieva si è persa a valle. Le acque opache e torbide si disperdono per fermarsi in lagune paludose e melmose, in attesa di essere risucchiate e sparire oltre la foce, dove il fiume dissolverà ogni traccia di quel suo lungo e maestoso scivolare dalle montagne innevate fino a questa desolata terra. Come ombra di se stesso, attende stanco un cambio di marea, che lo cancellerà definitivamente, per quanto speri ancora e sempre che lo rapisca il traboccare di una sua stessa piena, evitandogli la fine peggiore, il disperdersi in vapore nell’aria, come cenere di morti, quando il sole incessantemente picchia sullo sfavillante specchio, non consentendo neppure quell’ultimo attimo, sussulto, nell’incontro mortale con il tanto atteso mare.
Qui nel delta si deposita finalmente ciò che gelosamente ha macinato e trasportato in sospensione dalle vette alpine, creando scanni, delimitando immense sacche salmastre, in cui sovente anche la canoa s’insabbia, se non si seguono le briccole dei canali periodicamente dragati. Granelli di nulla che vanificano oggi sforzo umano nel mantenere l’esistente, spostando inevitabilmente i confini sempre più avanti, prolungando l’agonia verso un mare anch’esso arenato su se stesso, nel desolante monito della lanterna vecchia al Mezzanino, neppure troppo antica, ormai inglobata a un paio di chilometri dal mare e privata della sua originaria funzione di guida.
Il fiume ha trasportato fin qui una memoria lontana e antica, disciolta e impercettibile, da cui affiorano ricordi e sensazioni melanconiche di luoghi ormai passati e dimenticati; così come mutato è il corso stesso del fiume e del suo sbocco, nel trasportare sempre nuove acque, accogliendo il passaggio di barche e chiatte destinate anch’esse a passare, passare e passare, in quell’eternità che è propria del fiume e che per noi naviganti si concilia solo con l’esserci ora.
Questo è il delta: acqua e terra di confine; spazio salmastro dove altre specie di pesci nuotano cieche, strisciano lungo il fondo, si mimetizzano nel fango o, smarrite e soffocate, saltano all’aria rivelando la loro presenza a becchi affamati e veloci, che non si fanno mancare la preda.
L’uomo ha cercato per millenni di fermarvi il tempo, di non farlo morire proprio qui sul delta, uno spazio a se stante, non solo e non tanto geograficamente, quanto temporalmente. Ma anche qui il destino ultimo del morente si sta consumando: la fabbrica naturale di canneti, per quanto florida, è stata abbandonata, sostituendo la canna delle capanne e dei ricoveri con materiali sintetici, preferendo i tessuti plastici come riparo per il sole e i termoplastici per produrre contenitori. I tronchi, trasportati abbondanti dalle piene pluviali e depositati sugli scanni, non saranno più né legna da ardere, né sostegni immersi di palafitte e tanto meno diventeranno assito nella barca del cozzaro con cui andare a coltivare il mitilo, lungo i fili sommersi che pendono da tralicci disseminati nelle sacche, o del vongolaro con cui raggiungere la sua area di secca, per rastrellare il fondo e raccogliere il bivalve prelibato.
Chilometri e chilometri di argini, fino all’orizzonte, costruiti con pesanti blocchi provenienti da cave montane e quindi lontane e quindi a caro prezzo e quindi – viene facile pensare – con tutti gli annessi e connessi derivanti dagli appalti per la realizzazione di queste opere monumentali, il cui misero e fallimentare intento sta nel mantenere una precaria stabilità nella salinità delle acque, nel continuo scambio tra mare e fiume, per permettere l’antica industria del mollusco a quelle ormai poche persone che a fatica ci cavano un magro stipendio. Archeologia industriale, che non si capisce perché sia ancora tenuta in vita, quando l’investimento complessivo supera di gran lunga il guadagno, e non credo che avvenga per una politica specifica, quanto per incrociarsi di circostanze confluenti, e non perché questa industria valga, anche storicamente, più di quella del baco da seta o di tante altre ormai perdute, avendo il mondo il suo corso, il verso a cui prima o poi ci si deve non tanto arrendere ma inevitabilmente adeguare.
E verrà dell’altro, del nuovo, che, se aggrappati all’antico non sapremo traguardare, certificherà l’ennesimo fallimento. Già ci aveva pensato l’Enel con la centrale termoelettrica di Porto Tolle, nel cuore del delta, ora in spettrale abbandono, dopo aver causato numerose morti per l’inquinamento con la sua torre funeraria in cemento armato di oltre 250 metri, visibile ovunque, che fino a tempi recenti era il manufatto più alto d’Europa, lo scempio per eccellenza in un’area tra le più selvagge. Oggi troppo costoso da demolire, da cancellare, e così non resterà che trovarne una degna riqualificazione ma in questi luoghi apparirà per sempre in penoso contrasto, una ferita aperta.
Come se non bastasse, lo sfruttamento del sottosuolo del delta avvenuto in passato, avviato per la presenza di gas fossili, ha progressivamente affondato intere aree un tempo agricole, con i loro fabbricati rurali, cascine e magazzini per la raccolta dei frutti della terra, costringendo all’abbandono e alla migrazione al di là degli argini, dove la terra è fertile per le bonifiche, o più spesso verso mete lontane in cerca di fortuna. Ma ciò che gli argini hanno artificialmente confinato, appare sradicato e forzosamente altro, non più appartenente alla cultura, al divenire del delta.
Il delta è zona depressa e, in quanto abbandonato, è delta e niente più. La connotazione umana, economica e sociale, che all’uomo piace tanto dare a ogni spazio: invadendolo, frazionandolo, accatastandolo e sfruttandolo, qui ha perso senso più che altrove, perché ciò che per noi è connotabile, per la natura semplicemente è, in attesa di riprendere il suo corso, di riappropriarsi prima o poi di ciò che le è stato sottratto, un battito d’ali per i tempi del mondo.
Ciò che è abbandonato può diventare facile terra di conquista d’imprenditori interessati più al ritorno economico dell’investimento che alla salvaguardia del delta, e l’impatto ambientale non dipende solo dal tipo di attività ma anche dalla dimensione che tale attività assume. Potrebbe proliferare il turismo in battello, il birdwatching, potrebbero realizzare porti per barche da diporto, villaggi turistici, stabilimenti balneari, parchi acquatici, parcheggi attrezzati per camperisti e chissà cos’altro. Tutto ciò potrà riportare luce al delta, rilanciandone l’economia, ma certamente io, Marco Ferrario e Michele Varin non avremo alcun dubbio a puntare altrove la prua della nostra canoa, per provare ancora quel leggero fruscio che accompagna lo scorrere della carena sull’acqua. Stefano Barbiero, canoista e conoscitore del delta, non solo perché vi è nato ma perché ama la sua terra, è da tempo interessato al recupero economico a livello turistico di alcune aree dismesse, tra cui la ex centrale elettrica dell’Enel (per chi fosse interessato alle sue proposte: stefano.barbiero@teletu.it).
Eko-mappe Delta del Po
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1° giorno. Siamo partiti dalla punta di Barricata lungo il Po delle Tolle e abbiamo risalito verso Nord per i labirinti del delta, d’altronde l’andare per il delta si apprezza proprio non prendendo la via maestra ma perdendosi per canaletti e canneti, esplorando l’esplorabile, pur sempre ricordandosi la via da cui si proviene in quel dedalo senza approdi, anche perché le mappe, per quanto si possa disporne di recenti, non sono mai fedeli a una realtà mutevole a ogni piena e alluvione.
Siamo passati per la Tenuta Daccò, abbiamo attraversato la Busa del Bastimento per entrare in Laguna di Canarin e, vagabondando per canaletti, spesso a fondo cieco, siamo giunti ai laghetti del Girotto, sempre in vista dell’orribile mostro dell’ex centrale dell’Enel.
A causa del vento e del freddo, abbiamo pagaiato senza sosta per scaldarci. Ci siamo fermati per una veloce merenda su una spiaggetta di conchiglie presso un vecchio barcone, come quelli del ponte di Bereguardo sul Ticino, e su cui una gentile coppia aveva costruito negli anni una casetta.
Una seconda sosta l’abbiamo fatta lungo la Busa Dritta, al faro di Punta Maistra, brutto come una ciminiera, abbandonato da suo custode e famiglia, dopo l’avvento dell’elettronica.
Poi per Batteria alle case allagate, spettrali cascine e costruzioni sprofondate e, di conseguenza, sommerse.
Anche qui a girovagare in cerca di un’uscita, dato che la bassa marea impediva le rotte più logiche, fino a vedere in lontananza un barcone che transitava oltre un canneto, indicandoci dove andare e, trovato un canale con un buon fondale, fino a uno sbocco sul mare tra lo Scanno del Gallo e quello del Burcio.
All’arrivo sulla lunga lingua di spiaggia deserta e desolata dello Scanno del Gallo (o del Burcio), appena prima della Busa di Tramontana, un forte vento incontrastato da terra ci ha fatto lottare per piantare le tende, intanto che Stefano Barbiero ci salutava, prendendo il mare come via di ritorno, dopo averci guidato per tutto il primo giorno.
Sotto un cielo plumbeo, che fortunatamente ci ha risparmiati fino al calare della notte, il vento si è preso la rivincita impastandoci la bocca di minuti granelli sabbia. Ci siamo preparati una di quelle semplici cene, che sa apprezzare solo chi ha trascorso tutta la giornata a pagaiare o a camminare, mentre una volpe attraversava la spiaggia e si nascondeva nella vegetazione oltre la duna, e chissà com’era giunta su quell’isolotto!
In questo periodo dell’anno le zanzare non sono ancora proliferate e anche per questo non abbiamo faticato ad addormentarci, dopo circa trentacinque chilometri percorsi in lungo e in largo su fondali spesso tanto bassi da arenarci e avendo dovuto contrastare correnti, maree e il vento teso con canoe pesanti di tutto il necessario per quattro giorni.
2° giorno. La mattina il mare era poco mosso, così abbiamo preferito tornare verso Sud pagaiando sotto costa e, come ci siamo allontanati dal litorale per evitare i frangenti, a non più di un centinaio di metri da riva, siamo stati accolti da un branco di delfini adulti, che pascolava forse in cerca di prede tra le reti lasciate in mare dai pescatori.
Superata la Bocca del Po delle Tolle, lasciato il mare, ci siamo fermati a mangiare sulla spiaggetta riparata appena oltre Barricata, di fianco agli approdi del porticciolo dei pescatori.
Pagaiando lungo la riva della Sacca di Scardovari, abbiamo superato le palafitte allineate dei cozzari e attraversato la Sacca tra i filari degli allevamenti di cozze,
dirigendoci poi verso la Sacca di Bottonera.
Superato il Po di Gnocca, abbiamo girovagato tra i meandri delle acque interne e tra i canneti per ammirare la natura.
Dopo aver percorso una quarantina di chilometri, il secondo giorno si è concluso sulla magnifica spiaggia del Bacucco, invasa da tronchi e coperta di innumerevoli conchiglie.
Nel mese di maggio è facile trovare lungo le spiagge uova di uccelli, anche prive di un vero è proprio nido e che apparentemente sembrano abbandonate a se stesse, e non a causa della presenza di noi canoisti.
Abbiamo cenato seduti al tavolo di una costruzione estiva, realizzata con tronchi spiaggiati da villeggianti che approdano in giornata con barche a motore, brindando con una dovuta bottiglia di vino rosso. Il vento, che ancora non ci dava tregua, ma ora proveniva dal mare, aveva finalmente spazzato via le nuvole, offrendoci un cielo a sera illuminato dal plenilunio, mentre sul resto del Nord Italia e sul Tirreno pioveva a dirotto.
3° giorno. Ripreso il largo tra i canneti, siamo arrivati, attraversando il Po di Goro, al Faro omonimo, tuttora abitato e meta turistica nella stagione estiva, per la presenza di un bar-trattoria e della famosa spiaggia dell’amore.
Approfittando della chiusa ancora aperta, regolata in base dal flusso delle maree, per evitare che si alteri la salinità delle acque interne, siamo entrati nel Mezzanino.
Passando per la lanterna vecchia e navigando tutta la lunghezza della valle di Gorino, fino alla Sacca di Goro, abbiamo raggiunto lo Scanno di Piallazza, lingua di sabbia sul finire a pelo d’acqua, anch’essa coperta di tronchi e conchiglie e, ovviamente, anche degli immancabili contenitori e bottiglie di plastica, per quanto mi sembra che il loro numero sia in progressivo calo.
Una breve pausa per riposarci e mangiare qualcosa, per poi prendere il largo sul mare e navigare verso Nord-Est con il vento in parte alle spalle, ma non più violento come il primo giorno.
Tornati al Faro di Goro e surfando per accedere al Po di Goro, ci siamo inoltrati per i canali tra i canneti per raggiungere nuovamente la spiaggia dove avevamo trascorso la notte precedente.
Avendo pagaiato solo venticinque chilometri, abbiamo piantato le tende già nel primo pomeriggio e ci siamo goduti del fascino di quell’insolita spiaggia.
Camminando lungo la riva io raccoglievo conchiglie, tra cui un raro e magnifico esemplare di una dozzina di centimetri di Stramonita, un Gasteropode del genere Murex, mentre Marco cercava ceppi di forme particolari, che caricati sulla coperta delle canoe, ha portato a casa come cimeli.
4° giorno. Smontato il campo con calma, abbiamo pagaiato per canneti e canali fino a tagliare la Sacca di Bottonera e, seguendo lo Scanno di Scardovari, siamo arrivati dopo poco meno di una ventina di chilometri al porticciolo dei pescatori di Barricata, a breve distanza dalla macchina.
Prima di rientrare a casa, non è mancato un brindisi di prosecco con un discreto piatto di spaghetti alle vongole da Renata, una delle trattorie della zona, dove purtroppo non si respira più quell’atmosfera genuina come appare nelle foto sulle pareti, e non solo per l’arredamento, anche per il menù e le ricette, un po’ leziose, come forse predilige il palato del turista.
Testo: Lorenzo Molinari ©
Foto: Marco (Eko) Ferrario ©
1/4 Maggio 2015 –
Lorenzo Molinari, Michele Varin e Marco (Eko) Ferrario
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Eko-conclusione
Ringrazio l’amico Stefano Barbiero, kayaker del Delta (di Porto Tolle), che con passione ha vissuto insieme a noi il primo giorno di questo trekking.
Stefano è una eccellente guida e un profondo conoscitore del Delta Veneto, il suo contributo è stato per noi un arricchimento necessario e utile per comprendere meglio il Delta e questa avventura.
a distanza di anni, è la terza volta che in Kayak da Mare, torno per qualche giorno a pagaiare e vagabondare nel Delta del Po.
Più a nord, lungo la riva, c’è un relitto di una barca da pesca che il tempo sta lentamente consumando.
Alla punta dello scanno di Goro (o di Piallazza), su quella che mi piace definire l’Ultima Spiaggia, ci fermiamo a pranzare.
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E’ piaciuto molto l’aspetto esplorativo e avventuroso del trekking in kayak.
Su di esse ci sono pochi rifiuti di plastica, le ricordavo più sporche in anni passati, forse i bagnanti, come anche i canoisti, hanno imparato a portare via i loro rifiuti.
Ci ha entusiasmato l’incontro con un gruppo di delfini che gironzolavano nei pressi delle reti a mare, al largo dello Scanno Boa e guizzando fuori dall’acqua, erano ben più veloci di un semplice clik delle nostre macchine fotografiche.
Ci è piaciuto e incuriosito, gironzolare nelle lagune, in particolare tra le case e di magazzini allagati e ormai diroccati e divenuti archeologia del Delta.
Ci è piaciuto quel mazzolin di fiori gialli cresciuto tra i rami di un albero arenato nel mezzo della corrente del Po di Bastimento.
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Non c’è piaciuta la desolazione del faro di Punta Maistra, sulla Busa Dritta.
Un brutto faro, abbandonato e in rovina, triste e angosciante. Come dice Stefano: “simbolo della rassegnazione dell’uomo del Delta”. Immagino la tristezza nel cuore di Stefano, quando lo abbiamo fatto sbarcare qui, ha dovuto ricordare gli anni della sua gioventù, quando era accolto nel giardino ben tenuto dalla famiglia del guardiano del Faro, con l’orto e gli alberi da frutta e con gli attracchi in ordine.
Anche se il Delta muta ad ogni piena, rimane questo il miglior documento: utile, ben fatto e necessario per chi, amante della natura, vuole conoscere intimamente e affrontare serenamente il Delta a remi.
Mi piace concludere con queste parole d’amore che Fabio Roccato dedica al Delta e alla Canoa.
Amo il Delta
perché placa il mio desiderio di solitudine.
Amo il Delta
perché mi riserva angoli dove dimenticarmi dei mali dell’umanità.
Amo la canoa
perché mi fa sentire parte integrante del Delta:
canna tra le canne,
acqua tra le acque,
uccello tra gli uccelli.
Note –
* Il disastro ambientale di Porto Tolle – http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/25/processo-enel-porto-tolle-scaroni-ha-non-indifferente-capacita-a-delinquere/1133170/
** Il racconto di Lorenzo Molinari (in PDF), con altre belle fotografie del nostro trekking, pubblicato anche su CUS Milano Canoa.
*** Michele Varin, racconta sul suo blog il Delta del Po – maggio 2015, aggiungendo significative testimonianze fotografiche.
– Claudio Villani, dopo aver conosciuto il Delta in kayak, ha voluto goderselo anche dall’alto. Ecco il suo volo di 3 minuti in Foce di Busa Dritta, sorvolando il Faro di Punta Maistra per raggiungere la spiaggia a mare: https://www.youtube.com/watch?v=DS3TzgQoIE4. Magnifico!
Serata Lariana di fotografie dal kayak da mare – a Plesio, Sabato 27 settembre 2014
IL RAMO DI COMO IN INVERNO
VISTO CON GLI OCCHI DI UN CIGNO
in kayak da mare, navigando e fotografando.
Da villa in giardino,
da giardino in villa.
Borghi, paesaggi e dettagli che si specchiano nelle acque del
Ramo di Como.
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Sabato 27 Settembre 2014 ore 19,30
P L E S I O
(Val Menaggio – lago di Como)
Palazzetto Polifunzionale – Via alla Grona, 88La cultura … vien mangiando
“A Tavola sul Lario”
- Polenta taragna di farina nostrana macinata a freddo in mulino,
- filetto di lavarello,
- pescato di lago in carpione,
- zincarlino,
- formaggio d’alpe.
Il Ramo di Como d’inverno,
visto con gli occhi di un cigno.
Dopo cena,
alle ore 21,
il percorso fotografico
verrà presentato e commentato
da Ekokayak.
Ringraziamenti: Sorgente Chiarella di Plesio, Oleificio Vanini di Lenno, Mulino Mambretti di Carlazzo.
Evento organizzato dall’Associazione Pro Plesio in collaborazione con l’Amministrazione Comunale.
21 settembre 2013 – Presentazione “Inverno in Alto Lario””
L’associazione Pro Plesio organizza presso il Palazzetto Polifunzionale di PLESIO – Val Menaggio – Lago di Como
Sabato 21 settembre 2013 – ore 21*
PROIEZIONE
A
INGRESSO
LIBERO
INVERNO IN ALTO LARIO
visto con gli occhi di un cigno
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DA PUNTA LA GAETA
E DA PUNTA MORCATE
NAVIGANDO VERSO NORD LUNGO LE SPONDE DELL’ALTO LARIO
… E ANCORA PIU A NORD, VERSO IL SUMMO LACU
… ALLA RICERCA DELLE ANTICHE ORIGINI DEL GRANDE LARIO
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PERCORSO FOTOGRAFICO
a cura di
Marco Ferrario (ekokayak)
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ispirato ai testi di
Davide Van De Sfroos
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Sabato 21 settembre 2013 – ORE 21
PRESSO IL PALAZZETTO POLIFUNZIONALE DI PLESIO (Lago di Como – Val Menaggio)
_______* “A tavola tra Lario e Valtellina” Nel Palazzetto Polifunzionale di Plesio è possibile cenare prima della proiezione. Per la cena l’appuntamento è alle ore 19 e il costo è di 15 euro (escluse bevande e dolci). La prenotazione alla cena deve pervenire entro giovedì 19 chiamando telefonicamente al numero 3487654218 oppure inviando una e-mail a elymolteni@alice.it. Menù: polenta e missoltino, pescato di lago in carpione, sciatt e pizzoccheri fatti a mano, polenta uncia, formaggi locali.Credit fotografici: Marco Ferrario – Clicca sulle immagini per ingrandirle
SUMMO LACU (Altissimo Lario) – Eko-intervista
INVERNO
ALPINO
IN
SUMMO
LACU
IN KAYAK
DA MARE
SULL’ALTISSIMO
LARIO
Vincenzo Maritati, giornalista redattore di PIEDI LIBERI – Itinerari nella natura
intervista Marco Ferrario (Ekokayak)
V.M. – Abbiamo chiesto a Marco Ferrario, creatore di EKO e grande appassionato del kayak e dell’avventura, di raccontarci qualcosa della sua grande passione.
Nelle sue parole un esempio di come l’amore per la natura si manifesti in tutte le stagioni, senza fermarsi neppure davanti alle rigidità del clima, anzi, l’esplorazione del lago d’inverno assume una bellezza e un fascino del tutto particolari.
Marco, come nasce la tua passione per il kayak da mare?
Eko – All’origine di questa passione c’è l’amore per i viaggi avventurosi verso le
isole mediterranee.
La prima volta che utilizzai un kayak fu trent’anni fa quando Ettore, un amico a cui sarò sempre grato, mi condusse ad esplorare le anse del fiume Ticino.
Compresi subito che il kayak era l’anello mancante verso la realizzazione dei miei sogni.
V.M. – Cosa vuol dire Eko–kayak?
Eko – Il significato di Eko sta in queste tre lettere che lo compongono:
E di esplorazione,
K di kayak da mare,
O, rappresenta la “rotondità” del pianeta Terra sul quale l’unico confine possibile è la linea che separa le terre dalle acque, è su questa rotta che costruisco i percorsi dei miei viaggi.
Eko significa anche ecocompatibile e il kayak lo è davvero, scorre silenzioso e non lascia traccia del suo passaggio.
V.M. – So che durante le tue esplorazioni documenti anche scempi edilizi, segnali inquinamenti…
Eko – Navigare in kayak è un privilegio.
Scivolare sull’acqua lentamente e con “passo” umano, consente di osservare la costa e vivere intensamente il paesaggio sentendosi parte di esso.
Un buon kayaker non può accontentarsi di un fluido qualsiasi su cui pagaiare e non può vedere solo il bello, è necessario avere occhi anche per i danni che l’uomo reca alla natura.
Occorre documentare, diffondere, denunciare e contrastare la devastante cementificazione costiera e gli episodi di inquinamento.
Ritengo che impegnarsi in tale senso sia un dovere che abbiamo nei confronti delle future generazioni che erediteranno questo pianeta.
V.M. – Come prepari le tue escursioni?
Eko – Le escursioni giornaliere richiedono una minima preparazione, più o meno la stessa di un escursionista di montagna, ma ovviamente con altri mezzi.
Più attenta è la preparazione a un viaggio nautico di più giorni.
Un kayak da mare adatto al trekking possiede ampi gavoni, nei quali sistemare tutto l’occorrente per affrontare diversi giorni in completa autonomia e non si fatica a pagaiare col kayak carico di provviste e di tutto l’occorrente per la navigazione e il bivacco.
Nel preparare un viaggio è anche indispensabile uno studio della mappa e perciò del percorso, per sapere dove è possibile sbarcare facilmente e dove è meglio sistemare il campo, inoltre non va trascurata la sicurezza e in tale senso è importante monitorare attentamente la situazione meteo-marina.
V.M. – Qual’è la stagione migliore per andare in kayak?
Eko – In kayak da mare si può viaggiare tutto l’anno.
Con opportuni accorgimenti, ogni stagione lo consente ed è proprio navigando in kayak sottocosta che si apprezzano e si comprendono pienamente le diversità stagionali.
Quando arriva la primavera il Mediterraneo mi attende con tutta la sua luce, i suoi colori e i suoi profumi. In particolare sono attratto dagli arcipelaghi, preziosi scrigni di natura e di vita vera.
Invece, col clima freddo e le giornate brevi, amo pagaiare sui laghi prealpini.
V.M. – Quali sono i laghi e gli itinerari più belli nella stagione invernale?
Eko – Per quanto concerne i laghi prealpini, il Lario stretto tra i monti, è sicuramente al primo posto tra le mie preferenze e conosco ormai ogni suo capriccio. Percorrendo le sue sponde è possibile pagaiare per oltre 200 km. senza soluzione di continuità, è una grande fortuna avere una palestra simile vicino a casa.
Anche il Benaco è molto bello, lo frequentavo negli anni della fanciullezza contemplando il suo bacino inferiore che mi appariva immenso e perciò misterioso, quasi fosse mare. Quando ho iniziato a navigarlo in kayak ho potuto finalmente conoscerlo in ogni suo dettaglio e raggiungere la parte nord che ha un fascino molto particolare, accarezzata spesso dal vento teso e gagliardo e coronata a occidente da magnifiche scogliere strapiombanti e a oriente dai più dolci declivi del Monte Baldo.
Eko – Non ho parole adatte per descrivere pienamente le sensazioni e il piacere di una pagaiata, l’immagine fotografica è più significativa di qualsiasi racconto, perciò lascio parlare le fotografie.
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INTERVISTA pubblicata il 18 febbraio 2013 su PIEDI LIBERI – Itinerari nella natura
Fotografie realizzate in Summo Lacu il 16.dicembre.2012
Credit fotografici: Marco Ferrario
Clicca sulle immagini per ingrandirle
Groenlandia – Kayak e climb
G R O E N L A N D I A
Trekking in kayak e alpinismo
SABATO 13 DICEMBRE 2014 – ore 21
Ingresso libero
Lavena Ponte Tresa (VA) – Sala Polivalente Bennet
Matteo Della Bordella, Christian Ledergerber e Silvan Schupbach sono alpinisti che hanno utilizzato i Kayak da Mare per avvicinarsi alla vetta da scalare.
Iniziarono a prendere confidenza col kayak lo scorso aprile, uscendo settimanalmente sul Lago di Lugano e seguendo gli insegnamenti degli amici Emanuele Rodari e Andrea Bolis, così, in poche settimane, hanno appreso e interiorizzato le tecniche di pagaiata e le manovre di rolling o eskimo per l’auto-salvataggio.
Prima di partire per la loro spedizione hanno pagaiato anche sul Lago di Pusiano, ascoltando e mettendo in pratica i preziosi suggerimenti di Antonio Rossi.
Il 5 agosto, Matteo, Christian e Silvan arrivano a Ittoqqortomiq, un piccolo villaggio di 469 abitanti; è l’insediamento di pescatori Inuit più a nord situato sulla costa est della Groenlandia, qui ha inizio la loro avventura.
Stivano nei gavoni di ciascun kayak una ottantina di chili che comprendono il materiale e provviste necessarie per sopravvivere per cinque settimane in completa autonomia e indossata la muta stagna (utile abbigliamento adatto a navigare in stretto contatto con l’acqua di quel mare che in estate raggiunge temperature di poco superiore a zero gradi), pagaiano per oltre 200 km. risalendo il fiordo.
Matteo sulle pagine dei Ragni di Lecco racconta così la sua esperienza in kayak:
… il 6 agosto alle 16 partiamo. Da qui in avanti siamo soli: noi 3 e la Groenlandia, con le sue bellezze e la sua natura selvaggia ed incontaminata.
Mi bastano pochi minuti per capire che pagaiare nel mare Artico, con tanto di vento, di onde, e un kayak pesante 170 kg, è molto diverso che pagaiare sul lago di Lugano. Beh, non è che ci volesse una scienza per arrivarci, ma solo quando sei lì ti rendi conto davvero di cosa vuol dire. Adesso siamo in ballo, bisogna ballare. Il kayak mi sembra totalmente ingovernabile, è affondato come un sottomarino e non reagisce ai miei comandi, lo scafo viene continuamente girato e sballottato tra vento e onde. Più che pagaiare, qui si tratta di lottare per restare a galla! Dopo circa 2 ore e mezza ci accampiamo per passare la notte. E’ vero siamo partiti, e questa era la cosa più importante, ma abbiamo fatto solo 10 km (con sforzi spropositati) e ne abbiamo davanti ancora 200… Le facce sono piuttosto preoccupate e anche Silvan, notoriamente sempre ottimista, fatica a stemperare la tensione. Con la sua classica risata, ci confida: “prima di questo viaggio ero molto preoccupato ed avevo parecchi punti interrogativi nella mia testa, ma ero convinto che, una volta partiti con i kayak, i dubbi si sarebbero risolti e mi sarei sentito più tranquillo e rilassato…beh, questa volta è decisamente l’opposto: dopo questo primo assaggio in acqua, i miei dubbi e le mie paure sono molto più grandi!”. “Andiamo bene…” penso io. Meglio dormirci su, domani è un altro giorno.
Il 7 agosto è effettivamente un altro giorno, e la musica un po’ cambia, anche se non del tutto. Per lo meno, vento e onde si calmano notevolmente. Perfezioniamo le regolazioni personali nei kayak, ma nonostante questo sono tremendamente lenti! Non posso credere di fare uno sforzo così grande e di andare così piano. Pagaiando il tempo scorre molto lentamente, è uno sport ripetitivo, e la mente è libera di vagare nei suoi pensieri. A differenza del lago di Lugano, dove il paesaggio varia in continuazione, qui in Groenlandia le distanze sono enormi e ti sembra di essere sempre fermo: sembra che la fine di una baia o di una spiaggia non arrivi mai. E’ uno sport dove occorre trovare il proprio ritmo, avanzare senza stancarsi troppo trovando il compromesso tra velocità e sforzo. Un compromesso che, personalmente, ho cercato a lungo ed invano per giorni, e che ho poi trovato a poco a poco a forza di fare. Dopo un impatto traumatico infatti, mente e corpo si abituano, e pian piano pagaiare risulta più facile, anzi, più normale. Entriamo in una sorta di routine, le nostre giornate sono tutte uguali: sveglia verso le 8, alle 9.30 salpiamo con i kayak… Poi 7-8 ore a pagaiare, fino a sera, con qualche stop intermedio per mangiare e tirare il fiato. Verso le 18 si prepara il campo, alle 19 si cena e alle 20 crolliamo distrutti nei sacchi a pelo, pronti per 12 rigeneranti ore di sonno. Ho avuto la sensazione di entrare in un circolo, dove dopo un po’ diventa tutto normale, ordinario, anche se per pochi giorni; un circolo per fortuna virtuoso, che ti fa sentire sempre più in sintonia con mare, kayak, pagaia e muta stagna e che in 7 giorni ci ha portato a destinazione, alla fine del fiordo di Skjllebukt, sulla penisola di Renland.
Non è tempo però di rilassarsi, sappiamo che l’alta pressione estiva in Groenlandia, dopo la metà di agosto, ha i giorni contati. Dobbiamo iniziare la nostra marcia verso il punto dove allestiremo il campo base.
Nonostante spalle e schiena siano piuttosto provate dai 210 km in mare, le gambe sono invece belle fresche e riposate, pronte a dare il loro contributo al raggiungimento del nostro obiettivo.
Dopo la prima parte del viaggio consistente nel trekking marino in kayak, Matteo, Christian e Silvan, proseguono il loro percorso camminando tra i ghiacci per 25 km., fino alla base dello Shark Tooth (Dente di Squalo), una roccia granitica verticale alta 900 metri. Tre giorni di arrampicata libera e sono in vetta. Il rientro sempre a piedi e poi nuovamente in kayak da mare per rientrare a Ittoqqortomiq.
……………………….. Passano i giorni e arriva il momento di rientrare. Siamo tutti ansiosi e curiosi di provare di nuovo l’ebrezza di infilarsi nei kayak e nelle umide mute stagne, nostre abituali compagne di viaggio in mare.
E’ il 30 Agosto quando iniziamo la lunga via del ritorno. Gli 85 kg che avevamo sui kayak all’andata (oltre al nostro peso) ora sono almeno dimezzati e la differenza in acqua si sente. Ritrovo ora il mio laser 5,50 come lo conoscevo e ritrovo in mare gli equilibri che mi mancavano nel viaggio di andata. Il primo giorno avanziamo alla grande, pagaiando in mezzo ad iceberg di diverse dimensioni, copriamo una distanza di circa 50 km. “Se continua così, il rientro è una passeggiata!”, penso durante le ultime pagaiate prima di accamparci.
Purtroppo, però, non continua così. Anzi, la situazione cambia radicalmente: prima la pioggia, poi il vento forte; impensabile andare avanti, siamo costretti a due giorni di attesa. Il terzo giorno piove ancora e la temperatura è scesa, ma niente vento. Decidiamo quindi di provare a partire. L’umidità derivata dal sudore che fatica a traspirare nella muta stagna amplifica la sensazione di freddo e la pioggia cade incessantemente tutto il giorno. Dopo 7 ore quasi no stop, stabiliamo che è il caso di accamparsi. Nella nostra tenda è tutto umido e bagnato, acqua dentro, acqua fuori, difficile mantenere qualcosa di asciutto. I giorni successivi alternano vento contrario a condizioni favorevoli per pagaiare quindi, dopo aver valutato che controvento servono sforzi enormi per progressi minimi, decidiamo di farci furbi e di essere pronti a saltare nei kayak non appena il vento cala, e ad uscirne non appena il vento si rinforza.Altri 3 giorni di pagaiata ci conducono quasi alla nostra meta. Troviamo riparo in una vecchia casa diroccata. Domani sarà il nostro ultimo giorno: 20-25 km, 4 ore di kayak, ci separano da Ittoqqotoormiit. Ci godiamo l’ultima cena e l’ultima notte di questa spedizione in un riparo asciutto. Sono già 3 notti che sogno di essere a casa: sogno Arianna, sogno gli amici, sogno il mio letto. E’ un sentimento condiviso, anche gli altri non vedono l’ora di rientrare nella civiltà e ritrovare le persone a loro care. Ma non è finita, finché non è finita!
……………………………………. Colazione: un caffè, poi un tè, poi una tisana. Seconda colazione: un altro caffè, un altro tè… e 3 ore che volano, pensando e ripensando a Berta. Il tempo, almeno quello, sembra finalmente migliorato e saltiamo per l’ultima volta nei kayak. Il mare artico però non ci fa nessuno sconto, anche gli ultimi 20 km che ci dividono da Ittoqqotoormiit li dobbiamo sudare, lottando duramente contro il vento e le onde.Nonostante questo riusciamo a rientrare senza altri imprevisti. Sabato 6 settembre alle 15 ritorniamo alla civiltà, 32 giorni dopo esserne usciti.
Peccato! Adesso la nostra spedizione è finita sul serio.
– Il racconto completo con la descrizione della scalata, l’incontro con l’orso e altri dettagli dell’avventura è su questa pagina dei Ragni di Lecco http://ragnilecco.com/groenlandia-grande-caccia-squalo/
– Matteo racconta prima della partenza: http://vimeo.com/99225838 video MountainblogTV
– Matteo racconta poi: http://play.montagna.tv/media/4371/il-kayak-lorso-e-lo-shark-tooth-matteo-della-bordella-racconta-la-sua-groenlandia/ video montagna.tv
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Durante la serata verranno proposti anche due cortometraggi che descrivono il viaggio estivo dei kayakers Giancarlo Albertari e Luciano Riva, i quali, sempre lungo la costa orientale della Groenlandia, ma un poco più a sud, hanno pagaiato per 300 km. nei fiordi della regione di Angmagssalik.
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100 giorni in kayak
2014, 176 pagine, f.to150 x 210 Cento giorni navigando in Kayak da Mare, lungo la costa italiana. Una navigazione solitaria. Un diario di bordo che è una guida del Bel Paese visto dal mare, tra natura, storia e cultura dell’accoglienza…
Il libro è pubblicato a più d’un anno da quando Fabrizio Trivella, pagaiando su un kayak da mare, con una tenda, un pannello solare per ricaricare l’i-pad e poche altre provviste, terminava la circumnavigazione della Penisola Italiana Si tratta di un diario ricco d’insegnamenti non soltanto per “navigatori”. Difficoltà, paura ma anche gioia e ammirazione per l’Italia e i suoi abitanti, visti da una prospettiva davvero unica, si susseguono nel libro, con ampia citazione delle località incontrate, raccontate anche attraverso brevi note storiche e curiosità. Il libro è una guida ma anche una storia di incontri, di cordialità e accoglienza spontanea delle tante persone che Fabrizio ha trovato lungo il percorso. Non manca il brivido dell’avventura; «oggi ho passato momenti drammatici, – scrive ad esempio il 18 maggio – mi sono sentito in pericolo a causa del mare molto mosso e del temporale in corso, in più non riuscivo a trovare un approdo lungo questo tratto di costa roccioso». «Ho avuto paura», confessa, ma alla fine, per fortuna, «dopo circa 10 miglia, quando già stava facendosi sera, ecco una caletta riparata, una minuscola spiaggia di sassi, neanche raggiungibile via terra…» E vi sono anche episodi curiosi o divertenti come quello in cui, in mezzo al mare, la voglia di un caffé spinge Fabrizio a vincere la sua naturale ritrosia quando, avvistato uno yacht, si avvicina chiamando: «Ehi, di bordo!». Seguono stupore, cortesia e intesa tra uomini di mare con il comandante dello yacht che, incuriosito, s’informa sulla sua impresa e gli offre un ottimo caffè! Un autentico momento di sconforto è quello che lo coglie il 16 agosto con un mare in cui «non mancavano delle belle onde – racconta la moglie Anna Maria, coautrice e “spalla” on line del nostro kayaker – e una, in particolare, l’ha tradito proprio mentre stava prendendo la videocamera per fare qualche ripresa. Il kayak s’è rovesciato e la camera è finita in fondo al mare!» Ma proprio come in una bella favola a lieto fine, un pescatore veneto, di Boccasette, la ripescherà mesi dopo tra i rulli di una “vongolara”. E grazie anche a quel “recupero” oggi possiamo vedere nel libro molte delle foto scattate durante il viaggio. Il libro è stampato con certificazione ecologica FSC, standard del Forest Stewardship Council Ecco il sito della casa editrice: http://www.edizionigiacche.com/100-giorni-in-kayak-da-San-Terenzo-a-Trieste.html