DELTA del PO
Trekking di 110 km. in 3 giorni e mezzo
esplorando in kayak da mare
IL GRANDE DELTA
Delta del Fiume Po
Mare Adriatico Settentrionale
Eko-foto e mappe © Testo di Lorenzo Molinari © Eko-prefazione e conclusione.
Eko-prefazione
Posso comprendere che Lorenzo, cresciuto canoisticamente su fiumi cristallini e ricchi di vitalità alpina, veda nel Grande Delta più la morte del fiume che la nascita di nuova vita.
- Testo di Lorenzo**
Il fiume trasuda
olio e catrame
le chiatte scivolano
con la marea che si volge…sospingono
tronchi che vanno alla deriva…Thomas Stearns Eliot, da “The waste land”
Non posso ingannarmi, convincendomi di aver attraversato luoghi che ricorderò per la loro bellezza. Al di là che possa non piacermi ciò che per altri è bello, credo di saper cogliere la bellezza ma nel morente per prima cosa si percepisce essenzialmente altro.
Quando il fiume cessa di essere, cessa di scorrere, quando la sua vitalità è ormai venuta meno, quando le sue acque hanno perso da tempo trasparenza e lucentezza, imputridite e inquinate da liquami e sostanze chimiche riversate senza posa da civiltà che prolificarono e prolificano per le centinaia di chilometri delle sue sponde e lungo quelle dei suoi affluenti, quando alle sue acque non resta che il saltuario ribollio di un lento fermentare, perché svuotate di ogni respiro, anche la vita che fino allora accoglieva si è persa a valle. Le acque opache e torbide si disperdono per fermarsi in lagune paludose e melmose, in attesa di essere risucchiate e sparire oltre la foce, dove il fiume dissolverà ogni traccia di quel suo lungo e maestoso scivolare dalle montagne innevate fino a questa desolata terra. Come ombra di se stesso, attende stanco un cambio di marea, che lo cancellerà definitivamente, per quanto speri ancora e sempre che lo rapisca il traboccare di una sua stessa piena, evitandogli la fine peggiore, il disperdersi in vapore nell’aria, come cenere di morti, quando il sole incessantemente picchia sullo sfavillante specchio, non consentendo neppure quell’ultimo attimo, sussulto, nell’incontro mortale con il tanto atteso mare.
Qui nel delta si deposita finalmente ciò che gelosamente ha macinato e trasportato in sospensione dalle vette alpine, creando scanni, delimitando immense sacche salmastre, in cui sovente anche la canoa s’insabbia, se non si seguono le briccole dei canali periodicamente dragati. Granelli di nulla che vanificano oggi sforzo umano nel mantenere l’esistente, spostando inevitabilmente i confini sempre più avanti, prolungando l’agonia verso un mare anch’esso arenato su se stesso, nel desolante monito della lanterna vecchia al Mezzanino, neppure troppo antica, ormai inglobata a un paio di chilometri dal mare e privata della sua originaria funzione di guida.
Il fiume ha trasportato fin qui una memoria lontana e antica, disciolta e impercettibile, da cui affiorano ricordi e sensazioni melanconiche di luoghi ormai passati e dimenticati; così come mutato è il corso stesso del fiume e del suo sbocco, nel trasportare sempre nuove acque, accogliendo il passaggio di barche e chiatte destinate anch’esse a passare, passare e passare, in quell’eternità che è propria del fiume e che per noi naviganti si concilia solo con l’esserci ora.
Questo è il delta: acqua e terra di confine; spazio salmastro dove altre specie di pesci nuotano cieche, strisciano lungo il fondo, si mimetizzano nel fango o, smarrite e soffocate, saltano all’aria rivelando la loro presenza a becchi affamati e veloci, che non si fanno mancare la preda.
L’uomo ha cercato per millenni di fermarvi il tempo, di non farlo morire proprio qui sul delta, uno spazio a se stante, non solo e non tanto geograficamente, quanto temporalmente. Ma anche qui il destino ultimo del morente si sta consumando: la fabbrica naturale di canneti, per quanto florida, è stata abbandonata, sostituendo la canna delle capanne e dei ricoveri con materiali sintetici, preferendo i tessuti plastici come riparo per il sole e i termoplastici per produrre contenitori. I tronchi, trasportati abbondanti dalle piene pluviali e depositati sugli scanni, non saranno più né legna da ardere, né sostegni immersi di palafitte e tanto meno diventeranno assito nella barca del cozzaro con cui andare a coltivare il mitilo, lungo i fili sommersi che pendono da tralicci disseminati nelle sacche, o del vongolaro con cui raggiungere la sua area di secca, per rastrellare il fondo e raccogliere il bivalve prelibato.
Chilometri e chilometri di argini, fino all’orizzonte, costruiti con pesanti blocchi provenienti da cave montane e quindi lontane e quindi a caro prezzo e quindi – viene facile pensare – con tutti gli annessi e connessi derivanti dagli appalti per la realizzazione di queste opere monumentali, il cui misero e fallimentare intento sta nel mantenere una precaria stabilità nella salinità delle acque, nel continuo scambio tra mare e fiume, per permettere l’antica industria del mollusco a quelle ormai poche persone che a fatica ci cavano un magro stipendio. Archeologia industriale, che non si capisce perché sia ancora tenuta in vita, quando l’investimento complessivo supera di gran lunga il guadagno, e non credo che avvenga per una politica specifica, quanto per incrociarsi di circostanze confluenti, e non perché questa industria valga, anche storicamente, più di quella del baco da seta o di tante altre ormai perdute, avendo il mondo il suo corso, il verso a cui prima o poi ci si deve non tanto arrendere ma inevitabilmente adeguare.
E verrà dell’altro, del nuovo, che, se aggrappati all’antico non sapremo traguardare, certificherà l’ennesimo fallimento. Già ci aveva pensato l’Enel con la centrale termoelettrica di Porto Tolle, nel cuore del delta, ora in spettrale abbandono, dopo aver causato numerose morti per l’inquinamento con la sua torre funeraria in cemento armato di oltre 250 metri, visibile ovunque, che fino a tempi recenti era il manufatto più alto d’Europa, lo scempio per eccellenza in un’area tra le più selvagge. Oggi troppo costoso da demolire, da cancellare, e così non resterà che trovarne una degna riqualificazione ma in questi luoghi apparirà per sempre in penoso contrasto, una ferita aperta.
Come se non bastasse, lo sfruttamento del sottosuolo del delta avvenuto in passato, avviato per la presenza di gas fossili, ha progressivamente affondato intere aree un tempo agricole, con i loro fabbricati rurali, cascine e magazzini per la raccolta dei frutti della terra, costringendo all’abbandono e alla migrazione al di là degli argini, dove la terra è fertile per le bonifiche, o più spesso verso mete lontane in cerca di fortuna. Ma ciò che gli argini hanno artificialmente confinato, appare sradicato e forzosamente altro, non più appartenente alla cultura, al divenire del delta.
Il delta è zona depressa e, in quanto abbandonato, è delta e niente più. La connotazione umana, economica e sociale, che all’uomo piace tanto dare a ogni spazio: invadendolo, frazionandolo, accatastandolo e sfruttandolo, qui ha perso senso più che altrove, perché ciò che per noi è connotabile, per la natura semplicemente è, in attesa di riprendere il suo corso, di riappropriarsi prima o poi di ciò che le è stato sottratto, un battito d’ali per i tempi del mondo.
Ciò che è abbandonato può diventare facile terra di conquista d’imprenditori interessati più al ritorno economico dell’investimento che alla salvaguardia del delta, e l’impatto ambientale non dipende solo dal tipo di attività ma anche dalla dimensione che tale attività assume. Potrebbe proliferare il turismo in battello, il birdwatching, potrebbero realizzare porti per barche da diporto, villaggi turistici, stabilimenti balneari, parchi acquatici, parcheggi attrezzati per camperisti e chissà cos’altro. Tutto ciò potrà riportare luce al delta, rilanciandone l’economia, ma certamente io, Marco Ferrario e Michele Varin non avremo alcun dubbio a puntare altrove la prua della nostra canoa, per provare ancora quel leggero fruscio che accompagna lo scorrere della carena sull’acqua. Stefano Barbiero, canoista e conoscitore del delta, non solo perché vi è nato ma perché ama la sua terra, è da tempo interessato al recupero economico a livello turistico di alcune aree dismesse, tra cui la ex centrale elettrica dell’Enel (per chi fosse interessato alle sue proposte: stefano.barbiero@teletu.it).
Eko-mappe Delta del Po
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1° giorno. Siamo partiti dalla punta di Barricata lungo il Po delle Tolle e abbiamo risalito verso Nord per i labirinti del delta, d’altronde l’andare per il delta si apprezza proprio non prendendo la via maestra ma perdendosi per canaletti e canneti, esplorando l’esplorabile, pur sempre ricordandosi la via da cui si proviene in quel dedalo senza approdi, anche perché le mappe, per quanto si possa disporne di recenti, non sono mai fedeli a una realtà mutevole a ogni piena e alluvione.
Siamo passati per la Tenuta Daccò, abbiamo attraversato la Busa del Bastimento per entrare in Laguna di Canarin e, vagabondando per canaletti, spesso a fondo cieco, siamo giunti ai laghetti del Girotto, sempre in vista dell’orribile mostro dell’ex centrale dell’Enel.
A causa del vento e del freddo, abbiamo pagaiato senza sosta per scaldarci. Ci siamo fermati per una veloce merenda su una spiaggetta di conchiglie presso un vecchio barcone, come quelli del ponte di Bereguardo sul Ticino, e su cui una gentile coppia aveva costruito negli anni una casetta.
Una seconda sosta l’abbiamo fatta lungo la Busa Dritta, al faro di Punta Maistra, brutto come una ciminiera, abbandonato da suo custode e famiglia, dopo l’avvento dell’elettronica.
Poi per Batteria alle case allagate, spettrali cascine e costruzioni sprofondate e, di conseguenza, sommerse.
Anche qui a girovagare in cerca di un’uscita, dato che la bassa marea impediva le rotte più logiche, fino a vedere in lontananza un barcone che transitava oltre un canneto, indicandoci dove andare e, trovato un canale con un buon fondale, fino a uno sbocco sul mare tra lo Scanno del Gallo e quello del Burcio.
All’arrivo sulla lunga lingua di spiaggia deserta e desolata dello Scanno del Gallo (o del Burcio), appena prima della Busa di Tramontana, un forte vento incontrastato da terra ci ha fatto lottare per piantare le tende, intanto che Stefano Barbiero ci salutava, prendendo il mare come via di ritorno, dopo averci guidato per tutto il primo giorno.
Sotto un cielo plumbeo, che fortunatamente ci ha risparmiati fino al calare della notte, il vento si è preso la rivincita impastandoci la bocca di minuti granelli sabbia. Ci siamo preparati una di quelle semplici cene, che sa apprezzare solo chi ha trascorso tutta la giornata a pagaiare o a camminare, mentre una volpe attraversava la spiaggia e si nascondeva nella vegetazione oltre la duna, e chissà com’era giunta su quell’isolotto!
In questo periodo dell’anno le zanzare non sono ancora proliferate e anche per questo non abbiamo faticato ad addormentarci, dopo circa trentacinque chilometri percorsi in lungo e in largo su fondali spesso tanto bassi da arenarci e avendo dovuto contrastare correnti, maree e il vento teso con canoe pesanti di tutto il necessario per quattro giorni.
2° giorno. La mattina il mare era poco mosso, così abbiamo preferito tornare verso Sud pagaiando sotto costa e, come ci siamo allontanati dal litorale per evitare i frangenti, a non più di un centinaio di metri da riva, siamo stati accolti da un branco di delfini adulti, che pascolava forse in cerca di prede tra le reti lasciate in mare dai pescatori.
Superata la Bocca del Po delle Tolle, lasciato il mare, ci siamo fermati a mangiare sulla spiaggetta riparata appena oltre Barricata, di fianco agli approdi del porticciolo dei pescatori.
Pagaiando lungo la riva della Sacca di Scardovari, abbiamo superato le palafitte allineate dei cozzari e attraversato la Sacca tra i filari degli allevamenti di cozze,
dirigendoci poi verso la Sacca di Bottonera.
Superato il Po di Gnocca, abbiamo girovagato tra i meandri delle acque interne e tra i canneti per ammirare la natura.
Dopo aver percorso una quarantina di chilometri, il secondo giorno si è concluso sulla magnifica spiaggia del Bacucco, invasa da tronchi e coperta di innumerevoli conchiglie.
Nel mese di maggio è facile trovare lungo le spiagge uova di uccelli, anche prive di un vero è proprio nido e che apparentemente sembrano abbandonate a se stesse, e non a causa della presenza di noi canoisti.
Abbiamo cenato seduti al tavolo di una costruzione estiva, realizzata con tronchi spiaggiati da villeggianti che approdano in giornata con barche a motore, brindando con una dovuta bottiglia di vino rosso. Il vento, che ancora non ci dava tregua, ma ora proveniva dal mare, aveva finalmente spazzato via le nuvole, offrendoci un cielo a sera illuminato dal plenilunio, mentre sul resto del Nord Italia e sul Tirreno pioveva a dirotto.
3° giorno. Ripreso il largo tra i canneti, siamo arrivati, attraversando il Po di Goro, al Faro omonimo, tuttora abitato e meta turistica nella stagione estiva, per la presenza di un bar-trattoria e della famosa spiaggia dell’amore.
Approfittando della chiusa ancora aperta, regolata in base dal flusso delle maree, per evitare che si alteri la salinità delle acque interne, siamo entrati nel Mezzanino.
Passando per la lanterna vecchia e navigando tutta la lunghezza della valle di Gorino, fino alla Sacca di Goro, abbiamo raggiunto lo Scanno di Piallazza, lingua di sabbia sul finire a pelo d’acqua, anch’essa coperta di tronchi e conchiglie e, ovviamente, anche degli immancabili contenitori e bottiglie di plastica, per quanto mi sembra che il loro numero sia in progressivo calo.
Una breve pausa per riposarci e mangiare qualcosa, per poi prendere il largo sul mare e navigare verso Nord-Est con il vento in parte alle spalle, ma non più violento come il primo giorno.
Tornati al Faro di Goro e surfando per accedere al Po di Goro, ci siamo inoltrati per i canali tra i canneti per raggiungere nuovamente la spiaggia dove avevamo trascorso la notte precedente.
Avendo pagaiato solo venticinque chilometri, abbiamo piantato le tende già nel primo pomeriggio e ci siamo goduti del fascino di quell’insolita spiaggia.
Camminando lungo la riva io raccoglievo conchiglie, tra cui un raro e magnifico esemplare di una dozzina di centimetri di Stramonita, un Gasteropode del genere Murex, mentre Marco cercava ceppi di forme particolari, che caricati sulla coperta delle canoe, ha portato a casa come cimeli.
4° giorno. Smontato il campo con calma, abbiamo pagaiato per canneti e canali fino a tagliare la Sacca di Bottonera e, seguendo lo Scanno di Scardovari, siamo arrivati dopo poco meno di una ventina di chilometri al porticciolo dei pescatori di Barricata, a breve distanza dalla macchina.
Prima di rientrare a casa, non è mancato un brindisi di prosecco con un discreto piatto di spaghetti alle vongole da Renata, una delle trattorie della zona, dove purtroppo non si respira più quell’atmosfera genuina come appare nelle foto sulle pareti, e non solo per l’arredamento, anche per il menù e le ricette, un po’ leziose, come forse predilige il palato del turista.
Testo: Lorenzo Molinari ©
Foto: Marco (Eko) Ferrario ©
1/4 Maggio 2015 –
Lorenzo Molinari, Michele Varin e Marco (Eko) Ferrario
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Eko-conclusione
Ringrazio l’amico Stefano Barbiero, kayaker del Delta (di Porto Tolle), che con passione ha vissuto insieme a noi il primo giorno di questo trekking.
Stefano è una eccellente guida e un profondo conoscitore del Delta Veneto, il suo contributo è stato per noi un arricchimento necessario e utile per comprendere meglio il Delta e questa avventura.
a distanza di anni, è la terza volta che in Kayak da Mare, torno per qualche giorno a pagaiare e vagabondare nel Delta del Po.
Più a nord, lungo la riva, c’è un relitto di una barca da pesca che il tempo sta lentamente consumando.
Alla punta dello scanno di Goro (o di Piallazza), su quella che mi piace definire l’Ultima Spiaggia, ci fermiamo a pranzare.
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E’ piaciuto molto l’aspetto esplorativo e avventuroso del trekking in kayak.
Su di esse ci sono pochi rifiuti di plastica, le ricordavo più sporche in anni passati, forse i bagnanti, come anche i canoisti, hanno imparato a portare via i loro rifiuti.
Ci ha entusiasmato l’incontro con un gruppo di delfini che gironzolavano nei pressi delle reti a mare, al largo dello Scanno Boa e guizzando fuori dall’acqua, erano ben più veloci di un semplice clik delle nostre macchine fotografiche.
Ci è piaciuto e incuriosito, gironzolare nelle lagune, in particolare tra le case e di magazzini allagati e ormai diroccati e divenuti archeologia del Delta.
Ci è piaciuto quel mazzolin di fiori gialli cresciuto tra i rami di un albero arenato nel mezzo della corrente del Po di Bastimento.
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Non c’è piaciuta la desolazione del faro di Punta Maistra, sulla Busa Dritta.
Un brutto faro, abbandonato e in rovina, triste e angosciante. Come dice Stefano: “simbolo della rassegnazione dell’uomo del Delta”. Immagino la tristezza nel cuore di Stefano, quando lo abbiamo fatto sbarcare qui, ha dovuto ricordare gli anni della sua gioventù, quando era accolto nel giardino ben tenuto dalla famiglia del guardiano del Faro, con l’orto e gli alberi da frutta e con gli attracchi in ordine.
Anche se il Delta muta ad ogni piena, rimane questo il miglior documento: utile, ben fatto e necessario per chi, amante della natura, vuole conoscere intimamente e affrontare serenamente il Delta a remi.
Mi piace concludere con queste parole d’amore che Fabio Roccato dedica al Delta e alla Canoa.
Amo il Delta
perché placa il mio desiderio di solitudine.
Amo il Delta
perché mi riserva angoli dove dimenticarmi dei mali dell’umanità.
Amo la canoa
perché mi fa sentire parte integrante del Delta:
canna tra le canne,
acqua tra le acque,
uccello tra gli uccelli.
Note –
* Il disastro ambientale di Porto Tolle – http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/25/processo-enel-porto-tolle-scaroni-ha-non-indifferente-capacita-a-delinquere/1133170/
** Il racconto di Lorenzo Molinari (in PDF), con altre belle fotografie del nostro trekking, pubblicato anche su CUS Milano Canoa.
*** Michele Varin, racconta sul suo blog il Delta del Po – maggio 2015, aggiungendo significative testimonianze fotografiche.
– Claudio Villani, dopo aver conosciuto il Delta in kayak, ha voluto goderselo anche dall’alto. Ecco il suo volo di 3 minuti in Foce di Busa Dritta, sorvolando il Faro di Punta Maistra per raggiungere la spiaggia a mare: https://www.youtube.com/watch?v=DS3TzgQoIE4. Magnifico!
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